|
Sale cinematografiche semideserte e
autorevoli stroncature politiche decretarono
l'insuccesso di Umberto D., il film
che Vittorio De Sica e Cesare Zavattini
avevano voluto realizzare a ogni costo e che
consideravano il loro capolavoro. Fu la fine
del "neorealismo". La scommessa di alcuni
grandi registi (Rossellini, Visconti, De
Sica) di poter rappresentare la dura e
triste realtà italiana del dopoguerra nella
sua verità e senza infingimenti era
definitivamente tramontata; al pubblico non
piaceva questo tipo di film, in cui si
mostravano le difficoltà materiali e
sentimentali della povera gente senza
ricorrere al comico, al romanzesco e
all'avventuroso, ma solo con la verità
dell'immagine. A niente era valso il
clamoroso successo internazionale di questo
tipo di cinema. Da allora in poi i grandi
produttori e lo Stato avrebbero finanziato
film di intrattenimento con attori famosi.
Umberto ci viene presentato come un borghese
ormai povero ma ancora dignitoso nell'animo
e nell'aspetto; ha un carattere schivo ed è
debole e rinunciatario, sconfitto dalla
povertà e dalla solitudine; la padrona di
casa sembra un personaggio da film dei
"telefoni bianchi", con la sua eleganza
ostentata e i suoi futili passatempi;
anche gli ex colleghi di Umberto non fanno
una bella figura con il loro rifiuto ad
abbassarsi per aiutare gli altri; non ne
esce bene nemmeno la carità dei religiosi;
il film ci rivela la vera faccia di questo
ceto borghese, fatta di egoismo, durezza e
avidità.
Anche se deboli e perdenti, Umberto e Maria
sono i veri eroi, grazie alla macchina da
presa che esplora il loro animo e ci fa
vivere i loro sentimenti e le loro
sofferenze.
E' il trionfo della
poetica del Neorealismo
e della tecnica del
"pedinamento" dei
personaggi: la cinepresa
si sofferma sulla stanza
di Umberto, sulla sua
difficoltà a prendere
sonno; ce lo mostra
quindi impietosa mentre
cerca di elemosinare
davanti al colonnato del
Pantheon ed al suo
rientro, quando trova la
stanza sventrata e le
sue cose ammassate. I
primi piani si
susseguono con il
crescere della
drammaticità: appare la
faccia angosciata di
Umberto quando cerca di
ritrovare Flick al
canile, la sua faccia
scoraggiata quando ha
perso ogni speranza; fa
tutto la macchina da
presa, dalla bocca del
personaggio non esce
alcuna parola che
esprima ciò che sente
dentro. Anche la scena
del risveglio di Maria è
uno dei capolavori della
poetica neorealista:
bastano i più banali
gesti o ambienti della
vita quotidiana
(alzarsi, togliere le
formiche dal muro,
macinare il caffè,
chiudere la porta con il
piede, asciugarsi le
lacrime) per svelare il
profondo del suo animo.
Giulio Andreotti, allora
sottosegretario alla
Presidenza del
Consiglio, con delega
allo Spettacolo, scrisse
sul settimanale DC "Libertas"
nel 1952: "Se è vero che
il male si può
combattere anche
mettendone duramente a
nudo gli aspetti più
crudi, è pur vero che se
nel mondo si sarà
indotti, erroneamente, a
ritenere che quella di
Umberto D. è l’Italia
della metà del secolo
ventesimo, De Sica avrà
reso un pessimo servigio
alla sua patria, che è
anche la patria di Don
Bosco, del Forlanini e
di una progredita
legislazione"...; la
polemica tra Istituzioni
e parte dei registi del
movimento neorealista
era aspra.
|
Umberto D. (1952)
Regia: Vittorio De Sica
La trama:
un vecchio funzionario statale, Umberto
D., è costretto a vivere da pensionato indigente in una misera camera
ammobiliata, con la perenne
minaccia di sfratto. Solo Maria, la servetta, gli dimostra una
certa comprensione e l'unico amico fedele è Flick, un cagnolino
bastardo. Dopo un ricovero in ospedale le difficoltà economiche
di Umberto peggiorano: deve riscattare il cagnolino al canile municipale
dove era stato rinchiuso e nessuno dei vecchi amici è disposto o
può aiutarlo; anche il tentativo di raggranellare qualche soldo chiedendo l'elemosina
non ha successo, la
sua dignità glielo vieta. Sconsolato decide di farla finita e
sta per
gettarsi sotto un treno; ma lo spavento di Flick lo richiama
alla vita e per Umberto è la salvezza; non pensa più al suicidio.

.jpg)
Foto 35x50
|