Neorealismo e dintorni

 

Christian De Sica ricorda Il Padre alle prese con la regia del film "La porta del cielo"

 

Le riprese della Porta del cielo iniziarono il 1° marzo del 1944. Dentro la Basilica di San Paolo. A Roma e all’estero. Vi sventola la bandiera bianca e gialla del Vaticano. Che non è in guerra con nessuno. Lì fu girata l’ambientazione della chiesa di Loreto. Lì fu costruito il set con il treno che trasporta i malati.
“Ma io non posso mica accettare la sceneggiatura di nessuno. Io scrivo con Cesare Zavattini, faccio film solo con Zavattini”. Papà era riuscito a imporre anche la riscrittura della sceneggiatura da parte di Cesare. Aveva appena scritto un film andato malissimo: I bambini ci guardano, e poi Zavattini, un ateo, quasi un rivoluzionario, quasi, e grazie a quel quasi papà insomma li ha convinti. E poi ha dovuto convincere Cesare. Che assolutamente non voleva scrivere un film su un miracolo. Ostiava e smadonnava. Ma accettò. La sceneggiatura della Porta del cielo fu scritta all’hotel Boston da Zavattini, Adolfo Franci e Diego Fabbri, quello cattolico, ben introdotto nella Curia, che doveva garantire l’ortodossia. Nonostante la presenza vigile del garante Fabbri, le gerarchie cattoliche ricevettero parecchie delusioni. Prevalse l’irruenza delle idee di Zavattini sostenute da papà. Nel copione il miracolo non c’era. I malati infatti si convincevano che il miracolo non dovevano aspettarselo dalla Madonna ma da loro stessi. Trovando dentro di loro la volontà e l’energia di vivere e guarire. Non fuori nelle forze soprannaturali. E di chi poteva essere questa idea, se non di Cesare? Ma il vero miracolo fu un altro: quella notte in cui papà lo ha convinto a fare quella sceneggiatura.

Zavattini faceva tardissimo: lavorava di notte, mangiando baccalà fritto all’alba, e in una friggitoria del Ghetto lui e mio padre hanno assistito a una deportazione di ebrei romani. Due camion, uno con i bambini e le donne e l’altro con gli uomini. Tornati a Cinecittà, hanno cominciato a scritturare partigiani, ebrei, amici di intellettuali e si sono chiusi dentro la Basilica di San Paolo e alla fine erano più di quattrocento persone. Che vivevano lì dentro. Tutti i componenti della troupe ebbero uno speciale permesso di circolazione. Un’assicurazione sulla vita, almeno a Roma. Ci fu chi se ne servì per fare il mercato nero, chi per partecipare alla Resistenza. La gente di cinema, inoltre, è spregiudicata, godereccia. Facevano l’amore dentro i confessionali, alcove verticali scomode ma adatte al godimento veloce. Li usavano come vespasiani. Ci dormivano. Toccava ai frati raccogliere i preservativi abbandonati. Il clima di guerra, la persecuzione contro gli ebrei, l’attesa della liberazione, la finzione del film e l’extraterritorialità garantita da quella Basilica trasformavano quel luogo sacro in uno scenario da film di Buñuel. Ma quando papà ordinava il “si gira” quella sorta di sabba infernale di quel popolo di finti preti, suore, feriti, sciancati, mutilati cessava e solo nella finzione del film la chiesa tornava a essere tale.
E un giorno, mentre giravano, comparve un uomo con un abito talare cremisi. Urlò: «Questa è la casa di Dio!». Fu deriso, scambiato per una comparsa appena vestita dalla costumista. Era monsignor Montini. Soltanto papà se ne rese conto e si inginocchiò davanti a lui. Tutti tacquero e si sentì Montini dirgli: «De Sica guardi che noi sappiamo, stia attento, stia attento, non tiri troppo la corda». C’erano un sacco di ebrei dentro. Piperno, Lattes, Levi, Modena. E di partigiani.
Il 5 giugno le riprese continuavano. Roma era ferma. Le lampade erano alimentate dai generatori sottratti alle Ferrovie dello Stato. Falsi sacerdoti celebravano finte messe, finti malati pregavano, finti familiari piangevano. Papà continuava a girare. Senza pellicola. Ormai finita. Anche lui faceva finta.
Finché si sentì il rumore dei tanks e qualcuno gridò: "Gli americani".
"Com’è venuto il film?"
"Bene".
"Ah sì? E il miracolo ce l’hai messo?"

"No".